San Benedetto, che era un piccolo ed infelice villaggio prima del prosciugamento del lago,
quasi tutto sommerso dall'escrescenza delle acque nel 1862, dove si moriva di febbri e di
fame, oggi è centro di prodigiosa attività e di benessere.
Quella popolazione, debole, infermiccia (sic) e povera, che giungeva appena a 600 abitanti,
è salita in breve periodo di tempo a 4000 circa, tutta gente forte, sana ed agiata.
Le terre del Fucino, coltivate da quei di S.Benedetto, si distinguono dall'alto dei monti per la
maggior regolarità del lavoro ed il più bel verde dei seminati: tutto il caseggiato del paese
ogni giorno più si abbellisce e si estende.
E' spettacolo assai commovente quello d'un popolo che, mercé l'industria e l'operosità,
risorge dalle proprie ceneri.
L'agiatezza ha le sue simpatie e il suo profumo. Si rivela dovunque, dai volti, dalle case,
dalle praterie, perfino dalla vigoria delle bestie.
Nè la legge di Giorgio III, né i provvedimenti dei gran Re Roberto d'Angiò avrebbero potuto
in altre parti fare il miracolo di migliorare la sorte degli animali come in San Benedetto, dove,
non altrimenti che tra gli Arabi, il cavallo è parte integrale della famiglia, è una ruota del
congegno della economia generale, e sa ognuno che il maltrattarlo o il negligerlo
significherebbe ledere ai propri interessi.
Sorge San Benedetto sulle rovine dell'antica Marruvium, città cospicua e capitale dei Marsi,
che abbattuta nei primi secoli della repubblica romana da Valerio Massimo, fu fatta
riedificare in meglio, e col nome di Valeria.
Ad ogni passo, nell'interno del paese e fuori, si incontrano le vestigia di quella città che gli
storici del tempo chiamarono splendidissima e per antonomasia conservò il nome di Civitas
fino al decimoterzo secolo in cui il Conte di Celano la distrusse.
Le escrescenze del lago in seguito ne sommersero i ruderi, e solo nella decrescenza del
1752 vennero allo scoperto le famose statue in marmo di Claudio, Agrippina, Antonia e
Adriano, che per ordine di Carlo III di Borbone insieme a moltissime altre pregevoli antichità
furono trasportate a Caserta.
Se ne vedono ancora le estesissime mura, gli avanzi d'un vasto anfiteatro e del
Campidoglio, che si vuole occupasse esso solo un'area di mille e cinquecento metri di
superficie quadrata.
Di tombe, mura reticolate, e lapidi ve n'è una congerie addirittura. Dacché il nuovo paese sta
sorgendo, è invalsa l'usanza degli scavi per la frequenza con cui vi si rinvengono pietre belle
e lavorate, le quali spesso sono capitelli di gran pregio e colonne di marmo che vanno a
confondersi nei muri nuovi, vittime anch'esse della inesorabile legge, che "la distruzione
dell'uno debba servire alla generazione dell'altro".
Così avviene che si scoprono tubi di piombo, avanzi di fontane pubbliche, camere con le
pareti di finissimo marmo e pavimenti di superbo mosaico: tutta roba che se non è buona
all'uso cui si vorrebbe destinare viene immediatamente ricoperta di terra.
Cosi su una lapide attaccata ad un angolo di muro nuovo leggesi a chiare note che "in altri
tempi essa copriva le ossa d'un Senatore e che Valeria aveva un Senato".
Vi nacque Bonifacio IV, eletto papa nel 606 e morto otto anni dopo, che ebbe dall'imperatore
Foca la concessione di quel Pantheon per trasformarlo in chiesa e monastero di San
Benedetto.
Sulle rovine dell'una e dell'altro sorge oggi la piccola cattedrale del paese, non
conservandosi d'antico che il solo abside, intatto ed a mura ciclopiche, ma che sparirà
anch'esso col progetto di prossimo ampliamento di quel locale.
Nella chiesa di Santa Sabina, che è fuori del paese e sulle macerie del Campidoglio, sta la
porta dell'antico tempio di Giove, con stupendi lavori artisticamente disposti.
Io ritengo che ad essa si farebbe un torto non dichiarandola monumento nazionale, non
foss'altro per il merito d'aver resistito all'ira dei tempi, e di mostrarsi agli occhi nostri tale